La visita all’abbazia di Staffarda dà grande gioia: la struttura originale salva, i pochi e ben riconoscibili adattamenti architettonici e le aggiunte successive. È una visita per certi versi facile, come può essere facile godere di un bel panorama. Ciò che più colpirà sarà ovviamente la chiesa con l’adiacente chiostro: l’attenzione tutta cistercense a variare ogni particolare architettonico e decorativo, per cui ogni colonna e ogni capitello sono diversi dai vicini, per sottolineare come l’uomo non può mai raggiungere la perfezione, ma contemplando la sua imperfezione può meditare della perfezione di Dio, e della Sua creazione.
La storia
Legata a doppio filo con un ramo di marchesi che si fa discendere dalle famiglie di Aleramo e di Arduino, è una storia che val la pena di raccontare. Bonifacio è marchese “del Vasto”, anche se di questo nome è attestato solo dopo la sua morte; ha comunque radicato il suo potere in quel territorio in buona parte incolto e disabitato (“vasto”, “guasto”) del Piemonte meridionale che da Saluzzo arriva fino all’entroterra di Albenga e Savona. In un’epoca in cui la sopravvivenza della famiglia e la speranza per la sua fortuna era in buona parte riposta nel numero di figli, e di figli che sopravvivevano al padre, Bonifacio poteva dirsi sul letto di morte soddisfatto. A Bonifacio restavano sette figli maschi, nati dall’unione con Agnese di Vermandois, nipote del re di Francia. Sono tutti loro, eccetto il vescovo Bonifacio il Minore , a donare un terreno al nuovo ordine dei cistercensi, in un anno tra la morte del padre (1127) e il 1138. Potrebbe sembrare che regalare della terra ad un ordine che per certi versi era una novità in seno alla Chiesa non fosse un gesto di autorità: in realtà è l’esatto contrario. Sei fratelli, che poi daranno vita a importanti e longeve dinastie nobiliari piemontesi (i Saluzzo, i Del Carretto…) che donano un territorio per l’edificazione di un’abbazia dimostrano innanzi tutto di possedere e controllare quel territorio; ma dimostrano anche unità di azione e coordinazione.
La fondazione
Fondare un’abbazia voleva infine dire porre la propria azione politica certo entro la gestione territoriale, radicare il proprio potere su di un’area, marcare la propria presenza. Una marca territoriale indelebile, perché connessa con la sacralizzazione dello spazio che «associa la propria immagine a quella di un ente santo». Ma vuol anche dire agire su un piano che va ben oltre il terreno, un piano che gli uomini del medioevo, così radicati nella loro terra ma con la convinzione della concretezza di un regno dei cieli, avevano sempre presente.
Il Duecento è il secolo d’oro dell’abbazia, che ha esaurito la sua spinta propulsiva e di espansione, ma gestisce il suo ruolo di prestigio indiscusso. Il Trecento porta invece troppe novità, e segna l’inizio del declino di Staffarda, e di molte altre fondazioni cistercensi. Un declino molto spesso dorato, ma inesorabile e che inevitabilmente porta alla scissione tra cenobio monastico e beni territoriali.
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