Chi oggi visita Lucedio fa quasi fatica a riconoscere sotto l’aspetto barocco l’origine romanica, l’abbazia dietro all’azienda agricola. L’aspetto attuale è il frutto delle profonde ricostruzioni negli anni ’60 del Settecento. Degli edifici originari rimangono però tracce, che portano l’osservatore attento a cercare, come in un gioco, la stratificazione degli stili, a ricostruire mentalmente l’aspetto che l’abbazia doveva avere nel Duecento, quando più di cinquanta monaci la abitavano, senza contare le decine di persone, non solo conversi (una trentina), che vivevano intorno, per, sull’abbazia.
Ma forse l’aspetto che ha oggi Lucedio è quello che meno tradisce la natura medievale dell’abbazia. Le risaie in cui si specchia il campanile ottagonale della chiesa ‘dei monaci’ (distinta da quella ‘del popolo’) non c’erano, ma c’era l’acqua, e c’era la volontà di coltivare, di trasformare il territorio in qualcosa di diverso.
Di questo splendore già nel Seicento non restavano che rovine: la peste, la posizione di frontiera tra due potenze, i passaggi di eserciti stranieri avevano lasciato l’abbazia allo stato di pochi ruderi. La ricostruzione barocca, più volte intrapresa e interrotta, è l’azione che trasforma gli edifici duecenteschi in ciò che oggi conosciamo. E se a Lucedio manca la grandiosità di altri centri come Staffarda o il fascino dei ruderi di Cluny, in nessun altro luogo se non qui si può osservare il mutamento, la realtà che dalla storia e dagli uomini viene plasmata, l’interazione tra una comunità e il suo territorio.
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